Decreto Minniti: la speranza di futuro viene ormai dai disperati?
Pensavamo che le ragioni per cui un Governo – anche la banda di abusivi spernacchiata dai risultati del Referendum – si potesse appellare all’articolo 77 della Costituzione per le questioni di urgenza assoluta, quale, per esempio, la necessità di ridurre drasticamente il bilancio delle Forze Armate di fronte alla miseria dilagante. Sbagliavamo.
Pensavamo che, per rafforzare la sicurezza delle città, occorresse investire fior di quattrini nella scuola e nella prevenzione e che la vivibilità dei territori dipendesse dai colpi assestati al livello più pericoloso della corruzione: quello politico, annidato anzitutto nei partiti di Governo e nelle assemblee dei «nominati», che hanno rapporti sempre più organici con organizzazioni criminali quali mafia, camorra e sacra corona. Sbagliavamo.
Pensavamo che la sicurezza delle piazze dipendesse anzitutto dal ritorno alla legalità repubblicana, violata dal Governo e dal Parlamento dei «nominati» e dall’espulsione immediata di manigoldi, cialtroni e ladri di democrazia che impestano le Istituzioni. Sbagliavamo.
Pensavamo che eliminare i fattori di marginalità ed esclusione sociale significasse eliminare la dilagante disoccupazione, la precarizzazione della vita, l’umiliazione dei lavoratori e ripristinare diritti negati. Sbagliavamo.
Pensavamo che il rispetto della legalità repubblicana si potesse ottenere anzitutto mediante il ritorno a condizioni minime di legalità sociale. Pensavamo che l’occupazione arbitraria del Parlamento fosse un reato gravissimo, ben più grave di quello commesso da chi occupa immobili abbandonati al loro destino da Istituzioni di cui ogni cittadino perbene si vergogna. Pensavamo che non si potesse nemmeno parlare di decoro urbano, se non si fosse posta mano al decoro della vita politica, ridotta a un verminaio. Sbagliavamo.
Questo Governo di flebile legittimità sostiene che la sicurezza e il decoro delle città dipendono dall’«accattonaggio con impiego di minori e disabili», dai «fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi pubblici» e lo «stazionamento» in luoghi turistici. In poche parole, il centro storico di ogni città italiana. Forte di questa fede puerile in un principio di autorità di Istituzioni prive di qualsivoglia autorevolezza, il Governo giunge sino al sequestro di persona di centinaia di manifestanti allo scopo di verificarne l’orientamento ideologico, ripristina provvedimenti delle «camicie nere» e ci pone di fronte a un autentico paradosso: dopo che un intero Paese li ha invitati a togliere il disturbo e a lasciare libere le aule della politica, Minniti e i suoi, scaricano sui sindaci legalmente eletti il peso di criminali politiche governative sul lavoro e sul welfare e impongono agli italiani di allontanarsi dalle loro strade e dalle loro piazze.
A chi fa tante inutili chiacchiere sull’ordine una domanda va fatta: come si fa a non vedere quanta violenza stanno subendo i nostri giovani e le nostre classi subalterne? Come si fa a puntare il dito sui cosiddetti centri sociali, fingendo di non vedere dove sono i banditi che hanno messo a ferro e fuoco la nostra democrazia?
Minniti non lo sa ma, grazie a lui, l’idea di «ordine pubblico» che governa la repubblica antifascista è ora una fotocopia della famigerata nota n. 1888 del 5 marzo 1934 sulla «disurbanizzazione di immigrati privi di possibilità di lavoro», che potremmo ribattezzare «nota Minniti», strumento prezioso, che i suoi colleghi fascisti utilizzarono per «rimpatriare» famiglie scomode, marito, moglie e persino bambini, rastrellare «minorenni traviati», prontamente accolti in barbari istituti correzionali, colpire braccianti che si ostinavano a non voler capire le ragioni dei padroni, infierire su poveri, vagabondi, omosessuali, dissidenti e persino esponenti della Chiesa Battista, quando si azzardavano a far festa attorno all’albero di Natale. Fu la «nota Minniti» l’arma che indusse i malcapitati protestanti a occuparsi – pena il confino – di argomenti tesi a «valorizzare il regime» e la sua «superiore civiltà romana».
Com’è sempre accaduto quando un’idea nobile come quella democratica finisce nelle mani ignobili del capitale finanziario, anche stavolta i tutori di un ordine eversivo e violento si preparano a colpire «sovversivi», dissidenti e chiunque canti fuori dal coro. La procedura è identica a quella già altre volte sperimentata: colpire tutto ciò che non sia compatibile con il pensiero unico ordoliberista, ammanettare l’idea del conflitto sociale, annichilire quel che sopravvive dl pensiero critico, zittire con le buone o con le cattive, gli innocui mormoratori, i personaggi sospetti e i poveracci. La linea la detta Salvini e tutti potremo incappare nella trappola di sanzioni che, per rapidità di procedura, discrezionalità di irrogazione e assenza di sensibilità umana, fanno carta straccia della Costituzione repubblicana e diventano l’invisibile manganello pronto a imporre olio di ricino a volontà, per togliere dalla circolazione «gli elementi manifestatisi pericolosi per la sicurezza pubblica e l’ordine sociale».
Le parole sono quelle testuali di un Prefetto fascista, ma vanno benissimo per il progetto di un governo coloniale, braccio armato dell’Unione delle Banche Europee ed espressione di tendenze totalitarie della società unidimensionale che si spiegano con una inconfessata consapevolezza: al di sotto degli strati popolari, mortificati, ma più o meno garantiti da quanto sopravvive dell’Italia postfascista, scorre il fiume carsico dei disoccupati e degli inabili, dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e colori. Questa gente esiste, è una massa di disperati che aumenta e non sparisce solo perché si lascia in piedi un simulacro di democrazia svuotato dei suoi contenuti originari. Esiste e incompatibile com’è con la società neoliberista, si fa prova tangibile di quanto urgente e immediato sia il suo bisogno di sottrarsi a condizioni disumane, alla ferocia di Istituzioni che ne hanno fatto carne da macello.
Sono masse che non hanno ancora coscienza del valore rivoluzionario della loro opposizione, ma sono così radicalmente e naturalmente disperate, che le vecchie regole del gioco non riescono più ad ammorbidirle, sviarle o contenerle. Di qui il bisogno di ricorrere a carte truccate, di segregare e – se necessario – schiacciare il loro naturale, elementare bisogno di vivere. In tal senso, il decreto Minniti è un segnale di paura. Le classi dirigenti, che pretendono di curare una malattia sociale ricorrendo alla terapia che l’ha causata, sanno perfettamente che il loro rifiuto di subire una realtà totalmente inaccettabile è così radicale e definitivo, che risorse tecniche, potere economico e forze armate, che hanno le mani legate dalla Costituzione, non sono in grado di affrontare situazioni di emergenza.
Un nuovo spettro corre l’Europa e minaccia il mondo degli sfruttatori non solo fuori dei suoi confini, ma dentro. Non aveva torto Marcuse: non si tratta di barbari che premono ai margini dell’impero, ma di una crisi di civiltà che produce disperazione e disperati ben dentro i suoi confini, nel cuore pulsante delle metropoli orgogliose, tra quelli che un tempo orgogliosamente dichiaravano: «civis romanus sum». E’ la civiltà che interrompe se stessa e il suo corso, sicché gli estremi si toccano e la coscienza più avanzata dello sfruttamento produce nel suo corpo la sua forza più sfruttata e più ostile. Viene in mente così ciò Walter Benjamin ebbe scrivere all’alba del fascismo: la sola speranza di futuro viene dai disperati.
Giuseppe Aragno
Coordinamento demA