A CENTO ANNI DALLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO. UNA DATA CHE PARLA ALL’OGGI

I 100 dalla fondazione del PCI parlano ad ognuno di noi, non solo ai suoi militanti e simpatizzanti, a quanti hanno dato parte della loro vita alla crescita ed affermazione del più grande partito comunista in Europa la cui esperienza terminò nel febbraio 1991 con il passaggio traumatico al PdS.

Samo di fronte, sicuramente, al patrimonio politico, organizzativo e teorico fra i più complessi e strutturati del panorama mondiale.

Il PCI dalla sua fondazione nel 1921 alla lotta partigiana, dalla svolta di Salerno del 1944 alla destalinizzazione del 1956, dal lungo Sessantotto al compromesso storico ha attraversato e segnato quasi un secolo di storia italiana.

Quel lontano giorno di pioggia di un secolo fa parla anche a noi, componenti di un movimento nel quale buona parte degli iscritti e simpatizzanti viene da altre esperienze.

Così noi viviamo quel giorno di un altro secolo, ben consapevoli della carica di rottura che interpretarono quei congressisti con le loro scelte ma impegnati ad andare oltre le, pur importanti, celebrazioni.

Non è questo il luogo per ricostruire analiticamente anni importanti. Semmai desta stupore leggere di alcuni studi che intendono attribuire alla scissione di Livorno responsabilità francamente incomprensibili documenti alla mano come l’affermarsi del fascismo o descrizioni né interessano ricostruzioni buoniste di una storia complessa e travagliata.

Per noi è invece importante – nel salutare quel 21 gennaio 1921 – rispondere alla domanda circa i valori, le rotture, le scelte per le quali l’inizio di quel giorno parla all’oggi volendo proporre una riflessione più strutturata.

Insomma, noi pensiamo di non essere solo in presenza di un fatto storico, importante e per il quale va portato rispetto se non altro per la strenua difesa della democrazia contro il fascismo e contro le pulsioni eversive di anni più recenti, per l’affermazione della nostra Costituzione, per le politiche verso i diritti.

Noi riteniamo che ci siano alcuni tratti che parlano all’oggi ed alla prospettiva che è giusto richiamare, rinsaldare, vivere come patrimonio per ognuno di noi nel proprio agire e nell’azione collettiva.

1) Il PCI nasce sulla base di una critica radicale all’assetto capitalistico della società e si definisce come altro, nella pratica politica e nella strategia. Il compito che si assegna il PCI è, per una lunga fase, quello di sostfenere l’irriformabilità di un modello di società, di produzione, predatoria e di lottare per un altro modello di società e di produzione, da far vivere già, prefigurandolo, nella vita organizzata del Partito.

Noi riteniamo che questa alterità strategica sia un valore anche oggi, sicuramente in questi mesi attraversati da una tragica pandemia, non solo per i drammatici dati sanitari ma anche per ciò che essa rappresenta sul versante sociale, economico, progettuale delle persone, ciò è ancora più vero.

Non esiste la possibilità di “moderare” le scelte del capitale. Si guardi alla produzione industriale orientata esclusivamente al consumo ed al consumo indotto, alle devastazioni ambientali talmente estese da prefigurare il rapido raggiungimento di un punto di non ritorno, al ricorso alla guerra per regolare i conflitti, alla condanna di milioni di persone alla fame e allo sfruttamento, alla pratica della diseguaglianza come pilastro che regge le fondamenta della ricchezza di pochi. E laddove le condizioni di sviluppo di un singolo Paese sono diverse, in questa distribuzione diseguale della ricchezza, esse sono essenzialmente il risultato delle lotte del movimento operaio e delle forze democratiche.

Insomma, anche la presunta modernità del capitale – laddove essa seppur diversamente dalle forme del passato esista – comunque si regge su principi discriminatori.

Noi riteniamo che ciò sia ben vero anche ora e non aiuta per nulla un praticato “principio di realtà”, in Italia come altrove, in base al quale l’assetto dato non è superabile. Su quel principio è molto più forte la cultura del risentimento protettivo che tanto caratterizza destra e populismo.

2) Identità/alleanze. Il PCI, quello ri-fondato da Antonio Gramsci alcuni anni dopo la sua affermazione, ha avuto una storia contrassegnata da una forte alterità di partito, composta di cemento ideologico, di vita di organizzazione, di una visione complessiva circa l’orizzonte strategico al quale pervenire che in più occasioni ha rasentato il settarismo. Nel contempo ha avuto la capacità, a partire dai momenti più complessi, di saper stringere alleanze o, quantomeno, patti d’azione anche con forze molto diverse pur di difendere e costruire approdi più giusti. Costruendoli sul merito dei singoli temi, in ciò esercitando sovente funzioni di governo pur stando all’opposizione. A noi piace vivere questo elemento come un fatto che parla all’oggi, soprattutto ad un oggi nel quale molto spesso il merito delle soluzioni è secondario rispetto alla conferma del sé, all’immediato tornaconto. Questa è l’essenza della politica come capacità di affermare una propria strategia e visione e nel contempo saper costruire alleanze più larghe. Nel momento in cui questo nesso comincia ad erodersi inizia il lento distacco di tanti cittadini dalla politica. Un distacco che solo apparentemente è disinteresse dalla politica e ben di più richiesta/rivendicazione di una dimensione della politica che sia in grado di delineare anche orizzonti per i quali val la pena di dedicare una parte, piccola o grande, della propria vita.

Questo mix di pratica dell’identità e cultura delle alleanze è l’antidoto migliore al finalismo dell’azione politica.

3) L’organizzazione come soggetto e non come luogo. Il PCI ha sempre attribuito grande peso all’organizzazione, intesa nella sua accezione più vasta. L’organizzazione come appartenenza, scuola, comunità educante, condivisione di valori, luogo di scontro, affermazione e pratica di identità, riconoscimento, alterità. Non sono certo mancati gli eccessi in un secolo di storia ma sicuramente la pratica del “soggetto organizzato”, dell’”intellettuale collettivo” come pratica comportamentale coerente con il proprio programma politico conserva un valore non solo attuale ma dirompente. E’ il contrario del leaderismo, della scissione fra pratica e teoria, è il nemico acerrimo del comitato di affari e della lobby. Il partito è il luogo che forma un modo di vivere e vedere, che ti dà strumenti, che porta le paure del singolo dentro ad una dimensione condivisa che le supera o, quanto meno, le attutisce e domina. Un intellettuale scriverà alcuni decenni fa che è la “banca della collera”, ovvero il luogo che conserva e trasforma la collera individuale e la porta a progetto condiviso. E’ l’affermazione di un IO collettivo che è fatto anche di riti, ma i riti per ognuno di noi sono importanti. E’ l’affermazione anche di comportamenti coerenti, in alcuni casi li chiameremmo per certe fasi “bacchettoni”, ma ne hanno fatto grande la storia anche nel riconoscimento degli avversari (“è un comunista, ma è una brava persona”) e nella capacità di declinare la “coerenza individuale” come una categoria della politica collettiva.

4) La classe, ovvero il riferimento. Oggi, tanta sociologia ci vorrebbe dimostrare che “la classe operaia non c’è più” come affermano con faciloneria anche  i vari commentatori. In realtà non solo esiste numericamente e qualitativamente ma registriamo, assieme a questa constatazione, che assieme ad una presenza del lavoro dipendente ancora consistente esso sia attorniata da una congerie di nuove forme di sfruttamento magari contrassegnate da un presunto riferimento alla modernità, tanto per addolcirle, ma sicuramente violente. Non c’è progetto di trasformazione radicale se non c’è un soggetto di riferimento per il quale, in primis, è pensato e costruito. Certo, a partire da quel soggetto si costruiscono alleanze e convergenze, ma bisogna scegliere altrimenti il fascismo (che è un fenomeno sociale, non solo la degenerazione del capitale, cit. Gramsci) o il populismo odierno diventano i veri partiti interclassisti perché rivendicano interessi miscelando tutto insieme ma, di fatto, favorendo il più forte. Ma l’altro elemento imperituro legato a ciò è rappresentato dalla straordinaria saldatura realizzata grazie al PCI fra intellettuali (siano essi i dirigenti del partito o siano, invece, i veri e propri intellettuali che si sentivano parte integrante della classe e loro interpreti sul versante culturale) ed operai che ad oggi, invece, registra la separazione di questi mondi. La saldatura fra intellettuali ed operai, fra condizione intellettuale e condizione operaia, non ha solo messo a disposizione della cultura italiana ed europea un patrimonio straordinario ma rappresenta oggi la necessità di ricostruire un legame senza il quale ognuno è più povero e più sfruttato.

5) Infine, o all’inizio?, la straordinaria intuizione di Antonio Gramsci relativa all’affermazione della necessità per il partito di esercitare l’egemonia culturale. Gramsci afferma in più occasioni come la battaglia politica non si possa sostenere solo sul terreno economico e sociale ma che si debba combattere anche nel campo delle idee: nell’arte, nella letteratura, nelle scuole, nei giornali. E che in quel campo occorra affermare un’idea, una visione del mondo, un progetto in grado di dimostrare di essere vincente. Una sfida sempre ardua quella sostenuta dal PCI su questo terreno ma che ha forgiato e messo a disposizione una produzione amplissima, una profondità che stupisce ancora a fronte della superficialità ricorrente e delle tante improvvisazioni. Ma una sfida che va raccolta perché unico antidoto per evitare che alle complesse categorie politiche e sociali che dominano il nostro tempo (immigrazione, ritorno dei confini e rottura degli stati, rifiuto della democrazia rappresentativa, primato della leadership carismatica) abbiano una risposta di destra. Egemonia culturale non è l’altra faccia del “principio di realtà” per cui le condizioni date non sono superabili ma rappresenta la capacità di orientare, dominare, la riflessione coerentemente ai principi di giustizia praticati.

Termina qui, in questa forma volutamente breve, il nostro sentirci parte di quel giorno di un secolo fa per quegli insegnamenti che è in grado di dare all’oggi senza alcuna forgiatura interessata agli interessi di bottega.

A quelle donne e a quegli uomini, ai tanti che hanno dato parte o tutto della loro vita portiamo rispetto.

Il nostro impegno è ad andare oltre e, insieme, realizzare un Ordine Nuovo.

Movimento demA